lunedì 21 novembre 2011

Mort a Auvers

Luglio 1890. Un pittore dallo sguardo stralunato, il cappello di paglia in testa, gli abiti laceri, si reca a passo veloce nei campi dietro il castello del villaggio; i sui piedi, che calzano scarpe logore, si muovono a scatti. La bizzarra andatura così come la mania per le discussioni senza fine o i cappelli con i nastri colorati, è una di quelle caratteristiche che lo rendono vittima di derisioni da parte degli altri abitanti del villaggio. Siamo ad Auvers -sur - Oise e quel pittore si chiama Van Gogh. Suo fratello Theo, che è sposato e abita a Parigi, ha avuto da poco un bambino che ha chiamato come lui. Ora, con quel "nuovo" Vincent, il vecchio Vincent si sente un peso.
Lo è sempre stato, ma ora lo è di più. Non avrebbe potuto fare il pittore se non ci fosse stata accanto a lui la presenza fondamentale di Theo, sia sotto il profilo morale che  economico. Theo, la sua famiglia. Theo, l'unico che lo ama. Suo fratello gli somiglia vagamente, ma, mentre Vincent è poco gradevole d'aspetto e piuttosto rozzo ed eccentrico nei modi, Theo è un bell'uomo, possiede la figura snella, elegante, anche se è cagionevole di salute. E' un esperto mercante d'arte e ha fatto carriera da Boussod e Valadon. Ma ora è in crisi. Crisi sul lavoro, crisi forse anche con la moglie, Johanna Bonger. Come accettare quel cognato strambo e sporco, sempre bisognoso di soldi e di sostegno? Ora poi che hanno un figlio da crescere devono per forza di cose cambiare le loro priorità, devono provvedere al piccolo per dargli una vita dignitosa. Vincent non vende quadri, Vincent ha le allucinazioni, Vincent forse è pazzo. A Saint Remy, all'ospedale per malati mentali, non hanno fatto nulla di concreto per lui.  Qualche bagno curativo, la possibilità di dipingere il giardino. Tutto qui. Però a Saint Remy il pazzo Vincent produce alcune delle opere più straordinarie della storia dell'arte occidentale.  Per quel suo nipote amato e forse inconsciamente odiato dipinge  Ramo di mandorlo in fiore. Rami contorti contro un cielo azzurro, di un azzurro quasi accecante. Immaginiamo il pittore che volge lo sguardo in alto, immerso nell'aria rigenerante di febbraio. E' nella campagna intorno all'ospedale, lontano dalle urla, dai visi allucinati, dal dolore straziante. La natura è lì, che sboccia felice, come eterna promessa di rinnovamento.  L'augurio che Vincent rivolge a suo nipote è quello di un esistenza piena di affetti, serena, gioiosa.  Vincent sceglie il ramo di mandorlo perché è uno degli alberi che fiorisce  prima, annunciando la primavera. Lo dedica al "nuovo" Vincent Willem Van Gogh. Che sia felice, che sia amato. Le stampe giapponesi che tanto ama lo ispirano, stilizzano le forme. I rami sono arabeschi aggrovigliati, sono pura tensione, braccia che agonizzano, mani che cercano. I fiori rosa, oggi sono quasi bianchi, sono la speranza che rinasce, sono la bellezza, la delicatezza. Con l'usura del tempo le tonalità  sono sbiadite, appena dipinto sia lo sfondo che i fiori possedevano toni accesi, forti, di un intensità  feroce. Un opera che riflette la vita: c'è bellezza, ma c'è anche sofferenza, spasmo. La pittura è un nodo allo stomaco che deve uscire, e Van Gogh sa che non ha tempo. Continua a produrre. Gli iris, il giardino dell'ospedale, la straordinaria Pietà che dipinge ispirandosi a Delacroix. E poi la Notte stellata, coin i suoi visionari vortici nel cielo,  quel ritmo possente e concitato, il cipresso, il suo albero preferito, la silhouette scura e contorta che collega cielo e terra.Il profilo basso del paese, la chiesa. Un cielo soverchiante immenso, la natura possente, l'universo sopra di tutto,  nella sua forza, da fare quasi paura. Quell'immagine è popolarissima.  Attualmente e si trova al MOMA di New York. Indimenticabile, ma il pittore la nomina solamente in un paio di sue lettere al fratello. D'altronde Vincent crede in sé, ma non si considera certo un genio. Seguono  alcuni mesi terribili in cui non è in grado di lavorare. " Parlando del mio stato attuale, sono grato per questo: ho potuto osservare che anche gli altri durante le loro crisi sentono voci e suoni strani come li ho uditi io, e che anche davanti a loro le cose appaiono cangianti. e questo diminuisce l'orrore che avevo in precedenza delle mie crisi, che quando ti piombano addosso all'improvviso non puoi che spaventarti oltre misura..."
Vincent lascia il sud dopo un anno a Saint Remy e si trasferisce ad Auvers, non troppo distante da Parigi-un'ora di treno- nè troppo vicino, e questa scelta è per tutti un sollievo. A Parigi Vincent  rappresenta una presenza  troppo ingombrante  per la vita borghese della famiglia Van Gogh e la città coi suoi mille stimoli lo agita. Vincent non può certo prendere il treno tutti i giorni. Ci si incontra con la famiglia ogni tanto. Poi rimane il contatto epistolare, quello di sempre, il diario di due corpi ed un anima. Il paesaggio di Auvers è piacevole e pittoresco: le colline, le casette in pietra con i tetti di paglia, la splendida chiesa. L'aria è limpida, l'atmosfera bucolica.

La Chiesa di Auvers su Oise
 ritratta da Vincent

















Vincent è libero ad Auvers, ma vive nel terrore di perdere la lucidità, di avere ancora quelle terribili visioni e quando è in uno stato mentalmente più stabile si tormenta per l'angoscia di pesare su colui che ama di più al mondo e l'unico che lo ricambia, Theo. Essere eternamente in debito, sentirsi un fallito, sentirsi solo. E' troppo. Vincent dice basta.


I campi di grano a Auvers


Pannello esplicativo, ad Auvers
nei campi di grano presso il cimitero
Domenica 27 luglio è una giornata piena di sole, fa caldo e non c'è una nuvola in cielo. Vincent si spara al petto. E' talmente confuso, sconvolto che non riesce a prendere bene la mira. Non muore. O più esattamente non muore subito. Si trascina all' Auberge Ravoux, una locanda dove occupa una modesta stanzetta al primo piano, con un pertugio angusto al posto della finestra. Si accascia sul letto. Passa qualche tempo prima che ci si accorga di cosa è successo. Il proiettile ha mancato il cuore, ma Vincent non ha possibilità di sopravvivere. Theo è avvisato da un altro artista olandese, il vicino che occupa la stanza a fianco di quella del fratello. L'olandese sente attraverso le pareti scrostate dei rantolii soffocati, dei lamenti. Va a controllare e si accorge di tutto.  Spedisce un telegramma a Parigi. Theo prende il treno, arriva  al capezzale di suo fratello, quel fratello più grande che aveva da sempre protetto. Il fratello su cui nessuno contava e che i genitori avevano completamente dimenticato delegando tutte le responsabilità al generoso Theo. Un peso troppo grande anche per lui.
La locanda della famiglia Ravoux per pochissimi franchi al giorno
si poteva no avere una stanza ed un pasto caldo

Il dottor Gachet, che ha assisitito Vincent negli ultimi mesi e che più di un bravo medico è un bonario amante dell'arte, prova a rassicurare Vincent.
"Puoi farcela, sopravviverai Vincent, devi dipingere ancora, ce la stai facendo. "
 Il fratello aggiunge le lusinghiere parole lette sul Mercure de France : il giovane critico Albert Aurier aveva descritto Vincent come un realista visionario " l'idea fissa -che alberga nella mente di Vincent scrive Aurier- è quella dell' "arrivo di un uomo, un messia, un seminatore di verità che rigenererà la nostra decadente e forse stupida società industriale".  A Vincent non importa.  Chiede di fumare la pipa.
"Se non muoio dovrò spararmi di nuovo ". Queste le parole del pittore. Anche Theo realizza, deve realizzare, che è la fine.

La camera di Vincent ad Auvers sur Oise, Auberge Ravoux

All'una e mezza di martedì 29 luglio 1890 Vincent van Gogh muore. Accanto a lui il fratello, straziato e incredulo. La morte lo sfiora quella notte e Theo lo sa. Seguirà il suo amato alter ego nella tomba solo sei mesi dopo: la sua salute non regge dopo quella perdita. Sarà la vedova Bonger a continuare il lavoro del marito, ad impegnarsi perché il nome di Vincent Van Gogh venga riconosciuto. Nella primavera del 1891, si trasferì a Bussum, un piccolo villaggio a quindici miglia da Amsterdam dove abitava un ex compagna di classe. Negli anni riuscì ad affermare le doti del cognato, a non disperdere le collezioni, che ora sono il nucleo del Van Gogh Museum di Amsterdam.

Vaso con iris
E' facile cadere nella trappola dell'artista maledetto, romantico. Ma quest'uomo non è leggenda, è reale, è volontà di vita, è amore, forza, passione.Vincent ebbe intuizioni geniali, cercò a fondo la propria strada a prezzo di enormi sacrifici . Prima di giungere alla pittura era stato mercante d'arte, insegnante, predicatore protestante. Cercava quelle maledette risposte e non le trovava. Poi in 10 anni si giocò tutto. La risposta era già lì, nelle pieghe della storia della sua famiglia. L'Arte. Finalmente si decise e fu una lotta. Furiosamente disegnò. Ritrasse i poveri minatori del Borinage, in Belgio, dove predicava. Abbandonò la chiesa, la sua vocazione vera, quella artistica, si faceva sempre più pressante, intensa, vera. Dipinse, e dipinse tantissimo. Si esercitò a Parigi di fronte ai maestri del passato al Louvre; conobbe gli impressionisti e schiarì la sua tavolozza traendo ispirazione per nuovi effetti di luce e contrasto. Sperimentò la sua personale versione del divisionismo, trovò la sua tecnica ed i suoi colori, trovò Vincent.
E non importa se vendette un solo quadro in vita sua, perché rimase fedele a se stesso. Sapeva cosa fare per vendere, ma lui voleva essere solo Vincent. Senza manie di grandezza, con umiltà, tenacia, passione. Onesto verso se stesso e verso gli altri.  Questo strambo, nervoso, delicato, incredibile uomo, un anticonformista appassionato che aveva come primo desiderio quello di comunicare per essere accettato, e per dare qualcosa a quel mondo che non lo capiva; Beh quest'uomo ora, a 120 anni dalla sua morte è uno dei pittori più amati e conosciuti al mondo. Alle aste i prezzi dei suoi quadri sono alle stelle. I più grandi musei del mondo si contendono le sue opere. Poi c'è l'enorme mole d'affari del merchandising: puzzle di Van Gogh, poster, borse, tazze, teli da mare. Caro, infelice, Vincent, chissà che diresti in proposito. Ma forse non importa, tutto ciò che avevi da dire, l'hai già detto.

Le tombe dei due fratelli Van Gogh a Auvers.


venerdì 18 novembre 2011

Suzanne Valadon è uno dei nomi femminili più conosciuti degli anni d'oro della Butte.Una delle poche donne che non esercitò il mestiere di ballerina. Nata in campagna, a Bessin- Sur- Gartempe dalla relazione di una lavandaia con un non bene identificatoMonsieur (forse un certo Coulaud che venne poi arrestato come falsario) il quale le abbandona subito dopo la nascita di Suzanne. In realtà il suo vero nome era Marie - Clémenthine, effettivamente una scelta meno pittoresca. Marie a 5 anni si trasferisce con la madre Madelaine a Parigi, in quel terribile 1870 in cui scoppia la guerra con la Prussia.  Piovono miseria e sacrifici su questa famiglia spezzata, in cui la Madelaine per sopravvivere deve fare la domestica di giorno e la stiratrice di notte. Marie è sola, frequenta qualche lezione in una scuola religiosa dove non si trova bene. Troppo vivace, troppo indisciplinata, dicono le pie religiose. Passano gli anni e Marie cresce in fretta. Si reinventa a Montmartre e diventa Suzanne Valadon, per i pittori cui farà da modella sarà invece Maria. Ma andiamo con ordine.Una vita folle e avventurosa, mille mestieri, mille relazioni. Prima impara a fare l'acrobata, sembra addirittura che riesca diventare un abile trapezista al Circo Fernando, secondo altre testimonianze sarebbe stata invece una cavallerizza coperta di lustrini. Pare che  proprio una caduta da cavallo la costringa a cambiare professione. Sua madre è un esperta lavandaiae femme de menage, e anche Suzanne s'ingegnò in questo mestiere faticoso. La Blanchisseuse Suzanne portava  la biancheria pulita  a casa dei clienti. Uno di questi si chiama Puvis de Chavannes.
[Image] Suzanne Valadon in una fotografia 
che la ritrae da giovane E' qui che inizia il rapporto intenso della Valadon con la pittura. Divenne la  modella di Puvis. Posa per pittori del calibro di Henry de Toulouse - Lautrec, Pierre Auguste Renoir ( che la ritrae in Ballo in città e La colazione dei canottieri) e Edgard Degas. Edgard Degas la incoraggiò a dipingere e lei vi si buttò anima e corpo.

[Image] Ballo in città, Pierre Auguste Renoir
1883, Musée D'Orsay  
Nel frattempo l'amore, il sesso, la passione si fanno largo nella strada di Suzanne.
Tra gli amanti dell'epoca c'è anche Erik Satie, che le avrebbe inviato trecento lettere in sei mesi chiamandola "mon petit Biqui". Relazione breve, focosa e tormentata. Come da copione. La passionale Suzanne scopre ben presto le gioie della maternità, a 18 anni, anche se il padre di suo figlio rimane tutt'ora un mistero. Il futuro pittore Maurice Utrillo deve il suo cognome al generoso amante della madre Miguel Utrillo, un aristocratico spagnolo. La paternità reale rimarrà sempre un mistero, forse anche per la stessa Suzanne , che ebbe numerosi amanti. Anche i pittori la vollero come amante, come quel deforme spensierato giullare di Touluse - Lautrec, il geniale nano dai mille volti di Montmartre.La madre nubile vive così mesi di vita sregolata, all'insegna delle notti brave di Montmartre: vino, vivaci compagnie, risvegli pesanti e annebbiati. Poi arriva il primo marito: un amico di Satie, uomo solido facoltoso, un procuratore, Paul Mousis. Maurice viene mandato a studiare al Saint Anne. Infanzia triste, solitaria e difficile, quella del piccolo Utrillo. Mousis è severo, duro. Ma la sicurezza della vita matrimoniale  e borghese non appartiene all'indole fiera e ribelle della Valadon. La passionale Suzanne scalpita, s'imbizzarrisce come quel cavallo dal quale è caduta, forse, tempo prima. Suzanne a quarantacinque anni conosce Andrè Utter, un amico di suo figlio ed intreccia con lui una relazione intensa e febbrile che sfocerà in un secondo matrimonio.
[Image] Fleurs dans une cafetière empires, 
S.Valadon 1920, Collection Paul Dini, Lyon Dal 1910 Suzanne, Maurice e Utter vivono insieme in rue Corot. alcuni li soprannominano il trio infernale, sono scatenati. I vicini si lamentano, soprattutto di Maurice quando urla  e produce schiamazzi d'ogni genere per via dell'alcol.Suzanne dipinge insieme al figlio e al compagno, all'interno di quel suo bizzarro nucleo famigliare si crea un equilibrio sui generis, fuori da ogni schema socialmente accettabile all'epoca. 
[Image] Maurice Utrillo, Suzanne Valadon e André Utter nei primi anni 20' 

Ma si sa, siamo nella Montrmartre dei primi del 900'. Purtroppo l'alcolismo, in una casa dove bere molto è un' abitudine quotidiana, colpisce in modo feroce Maurice, tanto da portarlo a crisi fortissime. Si dice che la madre lo rinchiudesse in una stanza con pennelli colori e tele. Tutto è cominciato per il suggerimento di uno psichiatra che aveva consigliato di veicolare le tensioni e le nevrosi di Murice in un occupazione costruttiva. Sulla Butte i ragzzi lo chiamavano Litrillo. Ma diventerà un grande pittore, molto impegnato  e quasi morboso nella resa del reale. Le sue inquietudini di uomo e pittore solitario mescolate alle influenze impressioniste di Sisley e Pissarro creano una magia sulla tela. Densità dell'impasto, delicate vibrazioni tonali sulle quali il pittore si concentra per ore. Suzanne è vivace intensa, passionale, la sua pittura riflette tutto questo. I colori sono forti e sensuali, si sente l'eco di Paul Gauguin.
[Image] Autoritratto, S.Valadon 1927, Musée Maurice Utrillo 
Suzanne Valadon espone molte sue opere, che ottengono anche buone critiche, ma non vende molto. Al contrario di suo figlio. Quest'ultimo non si arricchisce: spesso si fa pagare con delle belle bevute. Nel 1909,  a ventisei anni, Utrillo ottiene un primo grande riconoscimento con una personale apprezzata dal pubblico e dalla critica. Si resta ammirati di fronte alla sua malinconia che ammanta i vicoli di Montmartre di uno strano fascino. Maurice dipinge in modo toccante, le sue tele emozionano, coinvolgono. Nel 1912 lo ritroviamo ricoverato a disintossicarsi. La pesante eredità della madre folle, una cortigiana, la moglie di un suo compagnio di gioventù, l'amante di tanti pittori e tanti sconosciuti. Maurice non può non rimanerne segnato.Saranno numerosi i tentativi di suicidio, le violenze che lo porteranno in carcere. Quando torna finalmente a casa dal sanatorio, Utter decide di gestire le sue finanze. Basta con le bevute, basta con gli sprechi, basta con l'autodistruzione. I due coniugi cercano di porre termine alle sofferenze fisiche e morali di Maurice e di ottenere grazie alla suo talento una vita più agiata. Dipingere per Maurice è l'unica via d'uscita, l'unico elemento si stabilità, l'unico ramo al quale può aggrapparsi mentre il torrente dell'esistenza violentemente lo trascina verso il gorgo. Nel 1920 ottiene un contratto con una galleria:un milione di franchi, una fortuna. Nel 1938 La Suzanne la Folle muore di congestione celebrale. Sono tanti coloro che presenziano al funerale per dare un ultimo addio a questa icona della butte, anche Picasso.



























  



  [Image][Image] [Image] 



  

mercoledì 16 novembre 2011

L'urlo

"Camminavo lungo lungo la strada con due amici- il sole tramontava- il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue-mi fermai- mi appoggiai stanco morto ad un parapetto- sul fiordo nero azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco- i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura- e sentii un un grande urlo infinito che attraversava la natura".

 Il grido, Edward Munch, 1893 Oslo Nasjonalgalleriet
 Fiumi d'inchiostro sono stati versati per quest'opera del pittore norvegese Edward Munch. L'artista visse ed espresse nella sua lunga parabola artistica la tragica essenza della condizione umana. Si possono dire e si sono dette molte cose sul pittore e sulla sua vita. Si può parlare della sua infanzia segnata al dolore, dal lutto, dalla malattia. Perde la madre a 5 anni, poi, 7 anni dopo, una lunga malattia gli strappa la sorella quindicenne Sophie. E' lui stesso a raccontarci di come nella sua vita di bambino, nella sua dimora familiare, che nell'immaginario felice di ognuno dovrebbe essere IL rifugio, un ambiente caldo, protetto, sereno, regnasse invece l'atmosfera lugubre e soffocante della morte. Un' alito carico di oscuri presagi ammorbava quelle stanze scure, anni avvelenati dal terrore assillante della perdita, del lutto. Anni in cui germoglia un pessimismo inconsolabile, universale.
"Nella mia casa abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l'infelicità. Così vissi coi morti."  L'amore, anche questo nobile, elegiaco sentimento, viene messo in discussione e visto con coraggio e spietata lucidità. Esso è l'inganno supremo, è sofferenza, tradimento, menzogna crudele. Trappola affascinante alla quale non possiamo resistere,  ma che si avvolge con le sue lunghe spire velenose fino astringere e soffocare.
Edward Munch fu infelice, ma non si suicidò come Van Gogh o Arshile Gorky. Non scelse neppure la via dell'autodistruzione, un modo più sottile di porre fine alla propria esistenza, come fecero Toulouse- Lautrec o Jackson Pollock, aiutati da alcol e droghe. Edward Munch visse e la sua vita fu lunga.Visse e si nutrì della tragicità dell'esistenza.  Le sue opere venivano esposte ad una catartica purificazione, lasciate all'aperto, minacciate e violate  dalle intemperie. Segnate anche loro dalla sofferenza. Opere come carne vivente, ferita e lacrata. La sua produzione artistica è stata "spiegata" collocandola in una congiuntura storico - sociale particolare, la crisi europea che va dalla fine dell'800' ai grandi conflitti mondiali. L'uomo perde la terra sotto i suoi piedi, il cielo sopra la propria testa. La vita è calpestata, la vita non vale più nulla. Edward muore nel 1944  a 81 anni. Nel 1937 la sua opera è stata bollata come arte degenerata dai nazisti.
A proposito del Grido si è scritto di come il dolore della figura in primo piano, di colui che emette il suono, di  colui che è il grido stesso, trovi una sorta di eco nel paesaggio circostante. La critica mette in evidenza che nell'espressionismo tedesco successivo l'uomo ed il paesaggio sono in contrasto. L'individuo è solo, la natura non accoglie e non condivide la sua tragedia, ma, al contrario, diviene ostile, fredda, nemica. Ebbene io sostengo che nessuno come Edward Munch abbia saputo rendere l'ineluttabile assurdità dell'esistenza umana. Nessuna religione ci salverà, nessuna filosofia ci verrà in soccorso, siamo soli. Il mondo plasmato dal nostro grido siamo noi, perchè la natura non è che un riflesso di noi stessi. Tutto è distorto e sconvolto da quel grido primordiale. Non c'è riparo, come non c'è nemico. Non c'è scampo. C'è invece il grido straziante del neonato che viene alla luce senza chiederlo e che trema dal freddo, quel freddo che diventerà ghiaccio e dolore e poi pietra tombale. C'è il Grido dell'uomo che non riesce a realizzare se stesso, a capire se stesso.  Comunicare con gli altri è impossibile, ciascuno avvolto nel suo bozzolo di dolore, al quale reagisce nascondendosi dietro una falsa vita borghese, dietro un amore, dietro un ideale fittizio. Nel volto scheletrico del grido è tracciato con inchiostro indelebile il suo futuro. Il senso o -se vogliamo- il non -senso della morte. L'unica certezza in nostro possesso. La fine di tutto, ci dice Munch, che siate stati illusoriamente e ostinatamente felici o che siate stati tristi e disperati è questo il destino. Che siate innamorati o soli, che siate brave persone o criminali, stupidi o intelligenti poco importa: tutto è già stato scritto. Un giorno non troppo lontano qualcosa accadrà ed dei vostri sentimenti, del vostro spirito, dei vostri affetti non rimarrà che polvere. Non sarete mai esistiti. Perchè?  Perchè?  La domanda infinita, archetipica, senza risposta. Afflizione e tormento inconsolabile dell'uomo, la sua solitudine difronte all'abisso, il non sense di questa vita e di questa morte è tutto qui, in questi colori stridenti che si avvolgono in morbide, visionarie curve,  già declinate secondo i futuri dettami dell'Art Nouveau.  Ma non c'è nulla dell'elegante decorativismo di fine secolo. Nulla di decadente ed edonistico. Siamo qui in presenza di qualcosa che supera tendenze artistiche e stilemi per approdare alla vita vera, alla soggettività più profonda.
 Solo una vola mi è capitato di comprendere veramente l'afflato mistico e terribile di quest'opera. Mi trovavo ad osservare una semplice riproduzione, ma il mio stato d'animo era particolarmente ricettivo in questo senso. Le porte dell'angoscia si schiudevano con sgomento, quasi contro la mia volontà. E allora ho capito l'Urlo. Questo dipinto è stato mio, io sono stata sua. Fusione nella disarmonica percezione del dolore umano. Ho sentito il grido, l'urschrei primordiale che alberga in ognuno di noi, sotto una coltre di difese e belle illusioni. Solo una volta, e mai più, sono stata quel grido. La potenza di questo quadro, semplici pigmenti a olio stesi su di una tela, è immensa. Dopo cent'anni il sentimento di un singolo trova eco nella stessa drammatica visione di Munch. Per qualche terribile istante è possibile percepire tutto lo strazio della nostra effimera condizione.
Durante un lungo, scioccante momento il pittore norvegese ha toccato la mia vita. Quando un artista riesce a travalicare anni, esistenze, storie, per giungere ad esprimere con coraggio il vero dramma universale che sta alla base della condizione umana, allora questo artista si può chiamare genio.

mercoledì 9 novembre 2011

SENSO DELL'ARTE, SENSO DELLA CULTURA, SENSO DELLA VITA


PERCHE'?
Ha un senso logico occuparsi di arte e cultura oggi? Perché dovremmo farlo? Se si ritene il quesito di importanza non rilevante ci si è già dati una risposta. In questo mondo in crisi dove tutto sembra andare a rotoli, dove la problematicità della vita di tutti i giorni prevale sul porsi questioni metafisiche, che senso discutere di qualcosa di astratto e lontano come l'arte? Essa rimane lì, relegata in un angolino, come un bel soprammobile al quale passiamo davanti distratti, tanto da non accorgerci nemmeno più della sua esistenza. E così l’arte e la cultura in genere si iscrivono nel lontano firmamento degli intellettuali. Divengono il rarefatto appannaggio di un élite privilegiata.  In molti altri casi, quando si guarda alla massa, l’arte assume le sembianze di un raro momento di evasione per chi, occasionalmente, va ad un concerto, visita una galleria o un museo, tanto per non fare le solite cose. 
Un esperienza momentanea, come ce ne sono  tante, un file tra i tanti dell’esistenza, intrinsecamente chiuso in sé,  che non lascia tracce durevoli nella mente e nello spirito di chi lo vive.
Infondo a cosa serve assistere ad un balletto, osservare un quadro o una scultura? Abituati ai ritmi frenetici del lavoro, della televisione, di internet, la vita sembra paurosamente lenta davanti ad un opera d'arte. Abbiamo tutti da fare e dobbiamo farlo in fretta. 
La società del hic et nunc va procede a gran passi, in un vortice di consumismo sfrenato dove il desiderio non esiste più, è anticipato e frustrato in partenza. La società liquida di cui parla lo studioso Zygmunt Bauman, dove tutto è mercificato e come tale può essere sostituito, ci incatena. Schopping e relazioni si legano come anime gemelle, specchio l'uno dell'altra. Il desiderio è qualcosa di lento, va curato, coltivato e richiede scelte difficili e forse anche qualche  sacrificio. La voglia, breve ed effimera nella sua essenza, è pilotata dall’esterno ed più semplice da gestire. In un mondo liquido, in una rete nella quale tutto scorre via apparentemente senza lasciare traccia, in cui è più facile connettersi e disconettersi che relazionarsi veramente,  la cultura umanistica viene sempre più emarginata a favore di quella scientifico-tecnologica, quando di cultura o formazione si può parlare. L'educazione pura e semplice a volte manca.  Le domeniche nei centri commerciali, i programmi - ed i libri e le riviste..- spazzatura, i film coi copioni già pronti, le facce degli attori già pronte, le stesse, i finali già pronti. Rassicurante, almeno quello. Tutto ciò purtroppo incrementa ignoranza, maleducazione e compromette la nascita di desideri semplici, costruttivi e non pilotati dall'esterno.

Uomo vitruviano, Leonardo Da Vinci 1490 circa,
Gallerie dell'Accademia Venezia


HOMO UNIVERSALIS E TRANSFER?
Per l'Italia in particolare, e, si sa, parlare male dell'Italia ormai è uno sport collettivo di gran moda ma questo non nega l'evidenza del problema e l'urgenza di risolverlo, per l'Italia dicevo,  c'è una paradossale beffa. Quella di un passato importante, straordinario e di un presente quasi mostruoso, quasi caricaturale nella sua pochezza culturale e sociale.
L'illustre studioso Jacob Burckhartdt nella Civiltà del Rinascimento sosteneva con forza qualcosa di importante al riguardo della popolazione italiana: il velo tessuto di fede, superstizione ed ignoranza,  permeante menti e corpi nel medioevo e tendente a sminuire l'uomo nella sua preziosa individualità, fu squarciato in Italia per la prima volta. E dagli italiani stessi. Leggiamo: "si risveglia potente nell'italiano il sentimento di sé e del suo valore personale o soggettivo: l'uomo si trasforma nell'individuo, e come tale si afferma"
Ancora Burckhardt spiega come l'uomo universale appartenga solo all'Italia: poiché nell'italiano rinascimentale non emerge solo la volontà di raggiungere un sapere enciclopedico, ma si afferma anche quella della propria singolarità.  Gli artisti  emergono individualmente. Gli uomini abbracciano oltre alla cerchia dell'arte, anche quella della scienza. E qui non si parla solo di Leonardo Da Vinci, ma dell'umanista, Homo Universalis, sia esso un dotto professore, un uomo di stato o uno dei tanti ambiziosi mercanti dell'epoca. Quest'uomo riceve un istruzione superiore e acquisisce una versatilità estrema che applica in ogni campo della propria esistenza. Dalla cultura si traggono stimoli e risorse per la vita quotidiana. Questa dinamica forma mentis è portatrice evidente dell’eredità greca. Il polymathes , era il saggio, colui che ha imparato molto. Protagora  nella straordinaria Atene del V secolo a.c. vedeva l‘uomo "come misura di tutte le cose".
Oggi si è persa questa capacità, questo eclettismo, che per primi avevamo riscoperto. Recenti studi psicologici hanno messo in evidenza come sia necessario stimolare negli studenti la capacità del transfer, da non confondere col transfert psicanalitico. Il transfer riguarda il collegamento, la capacità di trasferire un apprendimento ad un altro in contesti differenti. Infondo ritengo che questo procedimento che gli studiosi cercano di applicare come nuova metodologia educativa finalizzata ad un sapere più stabile e rapido sia molto vicino a ciò che naturalmente si è verificato durante il rinascimento in Italia. Il transfer è per definizione "la capacità del soggetto di trasferire competenze procedimenti, strutture e conoscenze" ( Polacek 2005). Applicare le categorie del cognitivismo come analizzare, selezionare, controllare, applicare strategie per potenziare la capacità di apprendimento autoregolato. Per molti studiosi il transfer è oggi l’obbiettivo primario dell’istruzione. Attraverso di esso l’apprendimento può avvenire in modo pi rapido e divenire conquista permanente. I contenuti appresi possono essere integrati ed utilizzati in contesti più ampi per risolvere problematiche intellettuali, ma anche sociali, in maniera dinamica, rapida, produttiva. In poche parole  tramite connessioni intellettuali ed operative si accellera l’apprendimento utile nella vita di tutti i giorni.
Trovando connessioni e legami  da un argomento all’altro, da una tematica all’altra si ottiene un arricchimento notevole ed un profitto intellettivo e culturale, non da poco: la nostra conoscenza risulterà più solida stabile e allo steso tempo dinamica.  Niente di nuovo sotto il sole. Ciò può semplicisticamente essere ridotto alla differenza tra una persona colta ed una erudita, con l’aggiunta che la persona  all'epoca di Duchamp e dei nostri futuristi.
La fontana, 1917, ready-made Marcel Duchamp, Philadelphia Museum


 Tutto è arte, nulla è arte. Negare l'arte è negare la vita. Apriamo le porte dei nostri musei e gallerie ed entriamoci. Apriamo gli occhi e lo spirito e nutriamoli di verità e bellezza, concetti eterni che ci elevano al si sopra della miseria morale e materiale che ci circonda. Chi fa arte deve prendere coscienza di ciò e soprattutto chi  se ne occupa. Gli artisti devono recuperare pazienza ed umiltà e rivolgersi allo studio della tradizione invece che rifarsi a ad una sperimentazione fine a se stessa e  continuamente finalizzata a spiazzare e stupire lo spettatore.

Un opera di M. Cattelan, 2004
 l'artista più pagato d'Italia, e di fama internazionale


Salvador Dalì, pur con le sue ben note  tendenze anarchiche contro ogni forma di potere costituito ammoniva " Se vi rifiutate di studiare l'anatomia , l'arte del disegno e della prospettiva, la matematica dell'estetica e la scienza del colore, lasciatevi dire che questo è un segno più di poltroneria che di genio..Cominciate a disegnare e a dipingere come gli antichi maestri, poi fate come volete, sarete sempre rispettati."
E la massa, la massa va indirizzata, guidata verso mete più elevate.
Consigliava qualche tempo fa in televisione l'homo universalis Benigni: "va stimolata la nostra parte migliore, non la più bassa che c'è in noi!" I mass media, invece di lobotomizzare milioni di persone con fatti di cronaca nera e con donne oggetto spogliate di dignità e vestiti, potrebbero fare qualcosa di differente. Gli spiriti esausti delle persone potrebbero elevarsi e non annichilirsi giorno dopo giorno.Recuperare il valore dell'educazione, della cultura vivendolo non come una fastidiosa imposizione scolastica ,ma come una straordinaria occasione per rendere la nostra vita più ricca e feconda. Solo così potremo tornare ad essere i versatili e stupefacenti uomini del rinascimento descritti da Burckhartdt.
La primavera, S. Botticelli, 1482 circa, Gallerie degli Uffizi, Firenze


martedì 1 novembre 2011

Jeanne Hébuterne

Compagna e -quasi- moglie di Amedeo Modigliani. Si racconta che"Dedo" la  conosca  a Parigi durante il Carnevale 1917, quando la giovane e bella Jeanne è una promettente studentessa all'Accademia Colarossi. In realtà un disegno datato 30 dicembre 1916 e dedicato da Amedeo a Jeanette colloca l'incontro qualche mese prima. Lei ha 19 anni, lui 32. Detta dagli amici "Noix de coco"per via dei folti capelli castano rossicci che contrastano vivamente con il volto pallido, ovale e minuto diventa presto modella e compagna del pittore livornese. E' una fanciulla piccola di statura e con i suoi tratti delicati rappresenta l'ideale di una charmante jeune fille che ammalia e suscita istinto di protezione in chi la conosce. La leggenda la vuole fragile, dolce e remissiva. Sua figlia Jeanne Modigliani ci riporta, nella biografia del padre Amedeo, una donna con grandi doti di pittrice, ispirata dai fauves. Amedeo la ritrae più volte e durante il 1917 i due decidono di vivere insieme, nonostante l'opposizione della famiglia Hébuterne. Dipingono insieme, disegnano, si amano.Quando escono insieme Amedeo è molto premuroso e galante con lei, ma la riaccompagna sempre a casa, modo di fare "all'italiana", prima di recarsi nelle bettole a bere con gli amici. Il 29 novembre 1918  a Nizza, dove la coppia si trasferisce per via della guerra e per cercare un clima  più salubre, nasce Jeanne Modigliani, dichiarata allo stato civile Jeanne Hébuterne. Solo dopo molti anni di battaglie legali a Jeanne verà riconosciuto il cognome del padre. Nel 1919 la Hébuterne è di nuovo incinta e nel luglio di quell'anno Modigliani firma un contratto di promessa di matrimonio, ma la sua salute è sempre più malferma. Soffre di tubercolosi da anni ed il suo corpo è ulteriormente debilitato dagli eccessi di alcol, droghe e fumo. Prima della fine dell'anno Amedeo lavora al suo autoritratto, l'unico che si conosca. Muore il 24 gennaio 1920 all'ospedale della Carità di Parigi.
Il giorno seguente all'alba Jeanne Hébuterne, incinta di nove mesi, si getta dal quinto piano della casa della sua famiglia.
I funerali di Amedeo Modigliani al Père Lachaise furono imponenti e diedero inizio alla leggenda di Modì. C'era tutta Montmartre e Montaparnasse: amici, pittori, poliziotti e furtivi mercanti in cerca della grande occasione. L'addio a Jeanette avvenne invece quasi in segreto, alle 8 del mattino alla presenza dei soli familiari.  Per lei non ci fu nessun corteo, solo un paio di taxi. Fu sepolta nella lontana banlieu parigina. La piccola dolce Jeanne inizia oggi ad essere riscoperta, qualcuno scrive della sua opera pittorica ricolma di promesse. E' stata la sua fine a condizionare il suo destino di artista. Scrive la critica B. Buscaroli di lei:"Da quel gesto nacque la leggenda infausta della maledizione. Per Modigliani e per lei: su Jeanne Hébuterne scese un oblio assoluto e soltanto ora, a più di ottant'anni dal suo volo dal quinto piano della casa dei genitori, ne appaiono le opere."